mercoledì 2 settembre 2015

Viaggio nell’Irpinia d’Oriente agosto 2015

Per queste terre lontane anche dal centro dell’Irpinia, mi ritrovai nel mezzo di agosto alla ricerca di una svolta di coscienza; di un passo verso l’oltre; verso l’incerto; verso l’improcrastinabile. Per cercare l’indefinito; cercare l’evoluzione; cercare nell’infinito. Cercare partendo da ciò che mi piace fare, cioè osservare. Osservare il paesaggio; assorbire ciò che mi circonda; puntualizzare; sostare e riflettere  in luoghi trovati per caso o ben segnati sulla cartina, poco importa.
Eccomi perciò in questo bel boschetto di cipressi, di quelli orizzontali ed alti che sanno tanto di Toscana o che ti avvisano dell’arrivo in un cimitero. Qui no, sono stati piantati per rimboschimento e costituiscono un’area di sosta per viandanti persi, per pellegrini di una vicina chiesetta o per incontri notturni dai reperti lasciati in loco. Un intenso costante vento, un pungente odore di resina, una intermittente cicala con il suo fastidioso verso ma che sa tanto di estate, mi fanno da contorno in questo primo assaggio d’Irpinia. Sono nei pressi di San Nicola Baronia, ma il paese più alto della Campania già mi attende.


Mi incammino nell’abitato di Trevico. Vi entro in punta di piedi, rispettando il profondo silenzio circostante. In effetti non sembrano le tre del pomeriggio ma la mezzanotte. E’ un silenzio talmente netto, che non ti aspetti, che ti spiazza, che ti mette soggezione. Esso è accompagnato dal sibilo del vento che crea malinconiche melodie in collaborazione con le tendine metalliche o di plastica delle porte. Passeggio ora velocemente per la via principale del paese. A destra la casa della paesologia, poi un balconcino con un fascio di peperoncini ad essiccare. Sulla sinistra la chiesa; di fronte la piazza, vuota, libera. Il silenzio mi assale, è oltremodo inquietante. Sembra aver bloccato tutto, sembra stampato nelle mura delle case stesse. Oltrepasso le ultime abitazioni e mi fiondo lungo una stradina in una verde cerreta. Qui trovo pace ed il passo anche si fa più calmo. Apprezzo il cimitero posto in posizione panoramica come il campo sportivo. Ripercorro a ritroso il paese, forse la vista di qualche abitante ora mi trasmette tranquillità. Prima di tornare all’auto rilancio un pallone a dei ragazzini, saluto un paio di persone. Prendo l’auto, vado a Bisaccia.
Rimango incantato da Bisaccia, dalle sue storie, dallo sdoppiamento in due abitati. Il paese madre ed il paese figliolo, forse illegittimo. Da spartiacque o da pretesto i vari movimenti tellurici e franosi. Mi dirigo in primis al paese antico. Gli abitanti mi accolgono con estrema fratellanza, sono tutti di una certa età. Risalgo per un vicolo a caso e subito mi accorgo di profonde ferite su case, muri; ferite lasciate sanguinare, mai risanate. Porte con bei portali in pietra sono murate con mattoni marroncini. Dopo la rapida visita al cimitero incontro Michele, ex preside, vicino lui la madre intenta a scucire una tovaglia bianca ricamata. Michele, volto affranto e tirato, mi spiega che il paese è stato distrutto ma non dai terremoti o dalle frane in corso d’opera, ma da chi ha deciso di delocalizzarlo, costringendo a spezzare il legame con la casa madre, creando una vera perdita d’identità. Una fine già scritta dalle leggi del mercato. Mi accompagna lungo un vicolo completamente disabitato mostrandomi le caratteristiche scalette esterne di salita ai piani rialzati delle case. Mi rievoca per ogni abitazione i suoi ex abitanti, quasi a rendergli onore. Lo lascio confermandomi una mia perplessità, si stava meglio prima senza progresso, c’era meno cattiveria e più lavoro per tutti. In queste terre i giovani non hanno futuro, ne hanno solo le pensioni.


Mi godo il tramonto sulla strada per Aquilonia, le pale eoliche del pianoro del Formicoso si stagliano come giganti. Mi rammarico per non aver visitato il castello di Bisaccia, tornerò.
Come il tramonto anche l’alba si presenta con colori rosacei e tenui, il risveglio sul lago di San Pietro è ben accetto.
Aquilonia, altro paese che porta i segni dei tremori passati. Qui la ricostruzione del nuovo paese è avvenuta subito dopo il terremoto del 30. Del paese vecchio solo ruderi e rovine. Svolgendo qualche passo di perlustrazione del territorio rimango estasiato dalla fontana-abbeveratoio-lavatoio comunale. E’ un opera d’arte. Tutta in pietra antica, con uno stemma gentilizio che riporta come data intorno alla fine del 1700, con vari ornamenti e soprattutto immersa in piacevole ambiente agreste. Lì vicino incontro Nicola, accompagnato da un cinque, sei mucche, una decina di caprette, due pecore. E’ nato nel 30, sarà uno dei più anziani del paese. Mi accompagna a vedere la stalla, ricavata in una casa del vecchio paese. Gli animali alla mia vista qui si rifugiano, nel luogo per loro sicuro. Essi, unici abitanti, unici usufruitori  di questo antico insediamento. Devo dire che capre e ruderi ben si coniugano. In un clima di desolazione gli animali abbelliscono tutto. Saluto Nicola mentre mi indica l’abitato di Monteverde, mia prossima meta. Orgoglioso mi ricorda quando da giovane vi faceva incursione per conquiste amorose salendo dai pascoli che occupavano lo spazio vuoto del lago di San Pietro. Le conquiste erano andate in porto riuscendo qui a trovare una sua fidanzata; chissà se è anche diventata la sua attuale sposa o i sospiri erano dovuti a possibili ripensamenti.
Monteverde, il paese cullato tra tre colli, due verdi, uno ricoperto di case e pietra. All’ingresso un falco voleggiante mi da il benvenuto. Giungo nel mezzo della festa patronale, il paese è vestito a festa. Mentre la Madonna passeggia per il paese visito il castello. Ben fatta al suo interno una mostra di immagini, acquerelli del paese rappresentato da emigranti vari. Dalle varie finestre visioni improvvise e dominanti sulle Puglie, sul Vulture, sull’Irpinia interna: siamo al crocevia di tre confini regionali e territoriali, la posizione è invidiabile. Il ragazzo custode mi conferma che qui si è puntato sul turismo ed i primi risultati sono incoraggianti. Per strada non posso non imbattermi nella sacra funzione, mi fermo come tutti in senso di devozione e rispetto. Ciò è il preludio per l’incontro con i fratelli Brescia, fotografia per loro e calorosa stretta di mano. Visito i due colli verdi, oasi di pace e riposo all’ombra di bei boschetti. Su uno vi trovo dei massi stranissimi, mi sembrano i dorsi di pachidermi addormentati.
La giornata si presenta intensa ed il proseguo non è da meno. Mi trovo a percorrere la lungo Ofanto, il fiume che segna il confine tra Irpinia e terre Lucane. Lo si considera un fiume sacro, la sosta lungo le sue acque è obbligata. Trovo un buon approdo per passeggiare lungo la sponda, rigogliosa, selvaggia. L’acqua mi attira, il battesimo nell’Ofanto va rispettato  ed attuato in una giornata soleggiata e calda.


L’Ofanto mi conduce, lungo la ferrovia dismessa con treni tutti da immaginare, sul blu-verdastro lago di Conza, ai piedi della balena sul cui dorso è appollaiata Cairano. E’ Angelino, barista per passione ed impegno civico in Cairano Centro, a suggerirmi questo strano appellativo di una conformazione rocciosa impossibile da non notare. Angelino, che ringrazio per le tante informazioni e la piacevole chiacchierata di fine giornata, lo trovo in compagnia di stravaganti locali intento a rimpinguare di birrozze. Tra le tante cose dette e non dette la storia di un benefattore del paese, noto produttore cinematografico avente fortuna all’estero, mi pare a Bruxelles, ma originario di Cairano. Quando si dice avere amore e ricambiare l’affetto natio. Peccato che il paese è costituito oramai da soli 300 persone, il resto tutti in Belgio o chissà dove. Infine Angelino ci tiene a ricordare che aveva un cane, una cane lupo, con cui in piazza ballava e di cui andava molto fiero. Immagino la scena, immagino una versione tutta Irpina di balla con i lupi. Al tramonto salgo alla rocca per gli antichi vicoli pieni zeppi di portali, su ciò il paese sembra un catalogo interattivo. Dal capo della balena il sole è ormai dietro le colline. Sotto di me appare nitida la lingua del lago di Conza, mentre le varie vallate si sovrappongono mescolandosi ed accorpandosi. Stradine sinuose si lasciano seguire con lo sguardo fino a che scompaiono dietro un pendio. In fondo i Picentini. Le pale eoliche del Formicoso. La luna. Il celeste sempre più blu. E poi solo le stelle.
Un nuovo giorno volta la sua pagina, le colline di Cairano albeggiano di rosso fuoco. Oggi non ho molta voglia di parlare con la gente, l’ideale è parlare con la storia. L’abitato antico di Conza della Campania è il luogo ideale. Il paese è fermo, le case si tengono compagnia con le altre case, dal lontano 80 qui regna il silenzio, il vuoto. Percorro una via, una volta penso importante. C’è una bella fontana, con due volti scolpiti, uno sorridente, uno triste. Antichi presagi? Salgo al primo piano di un fabbricato in buon stato, trovo una stanza piena di libri e fogli sparsi sul pavimento. Uno di questi attrae il mio sguardo, un orario ferroviario datato 1976. Lo sfoglio incuriosito dagli orari del tempo, trovo quelli della ferrovia che un tempo passava anche qui. In rosso con un pennarello sono segnati la stazione di Conza, un treno per Rocchetta, un altro per Foggia, ed ancora un espresso notturno per Bologna, Milano. Chissà se era un viaggio turistico o un viaggio della speranza senza ritorno quello programmato, sicuro il ritorno in quella casa non c’è più stato.


Passeggio sulle rive del lago di Conza, intorno a me pescatori. Mi siedo e mi concedo al paesaggio. Prendo nota che tutto ciò che vedo è stato profondamente modificato, dalle epoche, dalle convinzioni più o meno indotte dall’utilità provvisoria. Vedo un lago dove un tempo c’erano solo campi coltivati. Vedo una ferrovia ricostruita a monte con piloni immensi dove il treno oggi lo puoi solo sognare. Vedo un paese sulla collina semidistrutto ed abbandonato. Vedo pale eoliche che spuntano la notte come germogli, ti svegli, ne vedi una in più, ma quasi non ci fai più caso. Vedo oltre, vedo quello che sarà, sperando che l’erba ci sia ancora.
Mi dirigo ad Andretta, faccio un’ultima sosta paese. Le interazioni sono poche, rapide e flebili, ma solo per mia colpa. Visito la mostra di reperti antichi nel comune, allegate ci sono foto che parlano di protagonisti passati. Una signora in strada, gentilissima, si interessa al mio pellegrinare, il suo sorriso lo imprimo in memoria. A pochi metri un vecchietto che mi parla con gli occhi, sembra volermi benedire, augurarmi buona fortuna. Anche lui è qui dentro di me. Altre piccole interazioni con i cani di paese. C’è ne sono tanti, di ogni forma, di ogni età, di ogni sorriso.
Nel silenzio dell’ora di pranzo, così come al mio arrivo, mi rimetto in marcia per tornare verso casa con il pensiero di presto ritorno nei paesi dell’Irpinia d’Oriente. Scrigni di mille sensazioni, custodi di smisurate entità.

Luoghi attraversati o visitati in ordine temporale: San Nicola BaroniaTrevicoBisacciaAquilonia (AV)Lago di San PietroMonteverde (Av)CairanoConza della Campania,Lago Di ConzaAndretta (AV)

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