giovedì 28 gennaio 2021

Mastro Oliva, capitolo 5 bis, allegato (elogio) della sofferenza

Sì, vi do ragione, vi do atto, che ritornare sulla sofferenza, continuarne ad approfondire, è veramente un azione di non facile costrutto, è un amplificare quell'atmosfera, ovviamente non gradita da nessuno, a volte atroce, sicuramente fastidiosa. Ma ormai sappiamo bene che per varcare il gradino ed accedere al reparto soddisfazione che implica gioia e tutte le susseguenti positive enfatizzazioni, bene, prima di tutto ciò dobbiamo esaurire completamente fino all'ultima energia tutto ciò che sta nel comparto precedente, dettato per l'appunto dal soffrire.

Da quel soffrire terapeutico, quel soffrire che ci apre gli occhi e ci dia la visione giusta degli elementi, ed una base di ringraziamento che debba diventare perenne, nostro marchio del buon vivere. A tutto ciò noi non possiamo scansarci, non possiamo evitarlo.

Perciò dobbiamo ancor più approfondire le sofferenze patite dal nostro caro Mastro Oliva, cercando di trovarne una collocazione più interiore, una visione che s'avvicina ad un sussulto d'animo, e di umanità che ci accomuna.

Possiamo fare ciò anche perchè quello stato, fase di sofferenza, in Mastro è finita, giunta al termine, estinta; ecco quindi possiamo ora vederla, essendo al di fuori, con la giusta lucidità, con la polvere che depositatasi ha lasciato pieno campo visivo.

Iniziamo col dire che Mastro Oliva era un recidivo, più e più volte avvisato aveva sempre sminuito, non aveva ascoltato consigli, ne parole di affetto, ne di cura, ovviamente parole da chi gli voleva bene.

Il fatto è che lui era solo troppo preso, non esimeva forze o meglio era nel vortice, nella caverna del conoscersi e capire, capire fino a che punto poteva tirare la corda; purtroppo la corda, la sua corda non si spezzava e lui semplicemente continuava a tirare, continuava e continuava ...
Poi un giorno la corda non si è spezzata, ma è ancor più semplicemente scomparsa, forse qualcuno gliela aveva rubata? Qualcuno gli aveva fatto il paccotto? Qualcuno che sapeva bene come andar a toccare le corde esistenziali, andar a modificare quei mattoncini base su cui poggiano le nostre certezze, il nostro vivere; compito svolto con l'ingenuo inganno, con l'infido entusiasmo o più facilmente con una parola ben ponderata, messa al momento giusto, nell'emozione, nella fragilità obbligata.

Detto tutto così sembrerebbe che il cambiamento, la transizione si fosse svolta liscia come l'olio; purtroppo non è così, non è mai così, la svolta implica il dolore, spesso lo strazio, e di conseguenza il rischio, il rischio profondo di impattarsi, implodere, sventrarsi.
Esatto, proprio così, questo prima di tutto perchè si rimane nudi, alle intemperie, svestiti si tutte le certezze di botto si è indifesi per un lasso di tempo non di poco conto, si rivive la sensazione di impotenza come del bimbo appena nato che si trova in un Mondo più grande di lui, troppo grande, troppo profondo per immergersi senza disorientarsi.

Ed ecco che gli spazi diventano luoghi angoscianti, ricchi di pericoli, anzi gli stessi sembrano accartocciarsi l'uno sull'altro per poi schiacciarti e soffocarti, in ogni caso paiono urlarti, il qui non c'è spazio per te!!!

Reso ora immobile, per lo più paralizzato, cerchi un riparo lontano dalla frenesia, implori un quieto vivere, e di spegnere tutto quello che pulsa, che preme sulla ferita, che ti pigia sui punti dolenti, sono spine e sono punizioni corporali, sono veleni e sono macigni nello stomaco, legacci che t'imbavagliano, sabbie mobili che t'ingoiano.

A tutto questo urli e ti agiti, ma l'agitazione è controproducente, intanto l'esteriorità ha avviluppato l'interiorità tanto che anche il silenzio, e la pace, ti fischiano contro in continuazione ed il corpo nella sua interezza è posto steso come simulacro sacrificale, in un attesa snervante, senza fine, attendendo il colpo di grazia che possa essere di sollievo, terminale.

L'astio con il proprio corpo diviene inevitabile, s'aprono voragini, scomposizioni, smembramenti, tutta l'equilibratura e la convergenza è minata, ogni parte va a modo suo, cantano parole incomprensibili, avviene una generale smobilitazione dell'unità di squadra e ti trovi lì a cercar di prendere, tenere uniti, pezzi di corpo che continuamente dilatano, si disarticolano, non più saldi, vanno fuori orbita alla deriva come se improvvisamente cessasse quella forza gravitazionale che punti ad un centro, un centro ora evaporato.

In balia degli elementi, viscere che ti sfuggono dalle mani, parti molli che scivolano, fragilità sottolineate in rosso, osservi il dolore e lo maledici, ingoi dolore e fermenti; scomposto potresti essere ovunque, non sei più lì, e poco ti importa se il Mondo collassi in un batter d'occhio; un giorno in più volge al termine che potrebbe benissimo essere un giorno in meno, chi può dirlo?

Assuefatto, assestante, svuotato, la sola voce che ti rincorre è l'essere immolato, tra frammenti di esistenza, sulla linea piatta di un orizzonte in cui dove ti giri giri vedi solo acqua, un mare di acqua senza isole, senza approdi, senza punti referenziati.

Lì nei flutti la mano che si tende ora non più, gli abissi ti accolgono, senza più respiro, tra lampi d'immagini, e denti che si stringono, spazi di memorie, ed elettrochoc mentali. D'improvviso nella nebbie t'appare un bagliore, o una visione, una penna ed una carta, un sorriso sarcastico o ironico che sia, uno scheletro che balla, un flusso che ti porta via.

In ultimo chiudi gli occhi e rimembri, tu seduto, gli occhi chiusi e l'inezia, ed il sole che ti scalda, ti carezza, ti bacia, ti penetra, nient'altro ...

PS Stop alle telefonata, tempo scaduto, Stop alla sofferenza!!!






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