Per queste terre lontane anche dal centro dell’Irpinia, mi
ritrovai nel mezzo di agosto alla ricerca di una svolta di coscienza; di un
passo verso l’oltre; verso l’incerto; verso l’improcrastinabile. Per cercare l’indefinito;
cercare l’evoluzione; cercare nell’infinito. Cercare partendo da ciò che mi
piace fare, cioè osservare. Osservare il paesaggio; assorbire ciò che mi
circonda; puntualizzare; sostare e riflettere
in luoghi trovati per caso o ben segnati sulla cartina, poco importa.
Eccomi perciò in questo bel boschetto di cipressi, di quelli
orizzontali ed alti che sanno tanto di Toscana o che ti avvisano dell’arrivo in
un cimitero. Qui no, sono stati piantati per rimboschimento e costituiscono
un’area di sosta per viandanti persi, per pellegrini di una vicina chiesetta o
per incontri notturni dai reperti lasciati in loco. Un intenso costante vento,
un pungente odore di resina, una intermittente cicala con il suo fastidioso
verso ma che sa tanto di estate, mi fanno da contorno in questo primo assaggio
d’Irpinia. Sono nei pressi di San Nicola Baronia, ma il paese più alto della
Campania già mi attende.

Mi incammino nell’abitato di Trevico. Vi entro in punta di
piedi, rispettando il profondo silenzio circostante. In effetti non sembrano le
tre del pomeriggio ma la mezzanotte. E’ un silenzio talmente netto, che non ti
aspetti, che ti spiazza, che ti mette soggezione. Esso è accompagnato dal
sibilo del vento che crea malinconiche melodie in collaborazione con le tendine
metalliche o di plastica delle porte. Passeggio ora velocemente per la via
principale del paese. A destra la casa della paesologia, poi un balconcino con
un fascio di peperoncini ad essiccare. Sulla sinistra la chiesa; di fronte la
piazza, vuota, libera. Il silenzio mi assale, è oltremodo inquietante. Sembra
aver bloccato tutto, sembra stampato nelle mura delle case stesse. Oltrepasso
le ultime abitazioni e mi fiondo lungo una stradina in una verde cerreta. Qui
trovo pace ed il passo anche si fa più calmo. Apprezzo il cimitero posto in
posizione panoramica come il campo sportivo. Ripercorro a ritroso il paese,
forse la vista di qualche abitante ora mi trasmette tranquillità. Prima di
tornare all’auto rilancio un pallone a dei ragazzini, saluto un paio di persone.
Prendo l’auto, vado a Bisaccia.
Rimango incantato da Bisaccia, dalle sue storie, dallo
sdoppiamento in due abitati. Il paese madre ed il paese figliolo, forse
illegittimo. Da spartiacque o da pretesto i vari movimenti tellurici e franosi.
Mi dirigo in primis al paese antico. Gli abitanti mi accolgono con estrema
fratellanza, sono tutti di una certa età. Risalgo per un vicolo a caso e subito
mi accorgo di profonde ferite su case, muri; ferite lasciate sanguinare, mai
risanate. Porte con bei portali in pietra sono murate con mattoni marroncini. Dopo
la rapida visita al cimitero incontro Michele, ex preside, vicino lui la madre
intenta a scucire una tovaglia bianca ricamata. Michele, volto affranto e
tirato, mi spiega che il paese è stato distrutto ma non dai terremoti o dalle
frane in corso d’opera, ma da chi ha deciso di delocalizzarlo, costringendo a
spezzare il legame con la casa madre, creando una vera perdita d’identità. Una
fine già scritta dalle leggi del mercato. Mi accompagna lungo un vicolo completamente
disabitato mostrandomi le caratteristiche scalette esterne di salita ai piani
rialzati delle case. Mi rievoca per ogni abitazione i suoi ex abitanti, quasi a
rendergli onore. Lo lascio confermandomi una mia perplessità, si stava meglio
prima senza progresso, c’era meno cattiveria e più lavoro per tutti. In queste
terre i giovani non hanno futuro, ne hanno solo le pensioni.

Mi godo il tramonto sulla strada per Aquilonia, le pale
eoliche del pianoro del Formicoso si stagliano come giganti. Mi rammarico per
non aver visitato il castello di Bisaccia, tornerò.
Come il tramonto anche l’alba si presenta con colori rosacei
e tenui, il risveglio sul lago di San Pietro è ben accetto.
Aquilonia, altro paese che porta i segni dei tremori
passati. Qui la ricostruzione del nuovo paese è avvenuta subito dopo il
terremoto del 30. Del paese vecchio solo ruderi e rovine. Svolgendo qualche
passo di perlustrazione del territorio rimango estasiato dalla
fontana-abbeveratoio-lavatoio comunale. E’ un opera d’arte. Tutta in pietra
antica, con uno stemma gentilizio che riporta come data intorno alla fine del
1700, con vari ornamenti e soprattutto immersa in piacevole ambiente agreste.
Lì vicino incontro Nicola, accompagnato da un cinque, sei mucche, una decina di
caprette, due pecore. E’ nato nel 30, sarà uno dei più anziani del paese. Mi
accompagna a vedere la stalla, ricavata in una casa del vecchio paese. Gli
animali alla mia vista qui si rifugiano, nel luogo per loro sicuro. Essi, unici
abitanti, unici usufruitori di questo
antico insediamento. Devo dire che capre e ruderi ben si coniugano. In un clima
di desolazione gli animali abbelliscono tutto. Saluto Nicola mentre mi indica
l’abitato di Monteverde, mia prossima meta. Orgoglioso mi ricorda quando da
giovane vi faceva incursione per conquiste amorose salendo dai pascoli che
occupavano lo spazio vuoto del lago di San Pietro. Le conquiste erano andate in
porto riuscendo qui a trovare una sua fidanzata; chissà se è anche diventata la
sua attuale sposa o i sospiri erano dovuti a possibili ripensamenti.
Monteverde, il paese cullato tra tre colli, due verdi, uno
ricoperto di case e pietra. All’ingresso un falco voleggiante mi da il
benvenuto. Giungo nel mezzo della festa patronale, il paese è vestito a festa.
Mentre la Madonna passeggia per il paese visito il castello. Ben fatta al suo
interno una mostra di immagini, acquerelli del paese rappresentato da emigranti
vari. Dalle varie finestre visioni improvvise e dominanti sulle Puglie, sul
Vulture, sull’Irpinia interna: siamo al crocevia di tre confini regionali e
territoriali, la posizione è invidiabile. Il ragazzo custode mi conferma che
qui si è puntato sul turismo ed i primi risultati sono incoraggianti. Per
strada non posso non imbattermi nella sacra funzione, mi fermo come tutti in
senso di devozione e rispetto. Ciò è il preludio per l’incontro con i fratelli
Brescia, fotografia per loro e calorosa stretta di mano. Visito i due colli
verdi, oasi di pace e riposo all’ombra di bei boschetti. Su uno vi trovo dei
massi stranissimi, mi sembrano i dorsi di pachidermi addormentati.
La giornata si presenta intensa ed il proseguo non è da meno.
Mi trovo a percorrere la lungo Ofanto, il fiume che segna il confine tra
Irpinia e terre Lucane. Lo si considera un fiume sacro, la sosta lungo le sue
acque è obbligata. Trovo un buon approdo per passeggiare lungo la sponda,
rigogliosa, selvaggia. L’acqua mi attira, il battesimo nell’Ofanto va
rispettato ed attuato in una giornata
soleggiata e calda.

L’Ofanto mi conduce, lungo la ferrovia dismessa con treni
tutti da immaginare, sul blu-verdastro lago di Conza, ai piedi della balena sul
cui dorso è appollaiata Cairano. E’ Angelino, barista per passione ed impegno
civico in Cairano Centro, a suggerirmi questo strano appellativo di una
conformazione rocciosa impossibile da non notare. Angelino, che ringrazio per
le tante informazioni e la piacevole chiacchierata di fine giornata, lo trovo
in compagnia di stravaganti locali intento a rimpinguare di birrozze. Tra le
tante cose dette e non dette la storia di un benefattore del paese, noto
produttore cinematografico avente fortuna all’estero, mi pare a Bruxelles, ma
originario di Cairano. Quando si dice avere amore e ricambiare l’affetto natio.
Peccato che il paese è costituito oramai da soli 300 persone, il resto tutti in
Belgio o chissà dove. Infine Angelino ci tiene a ricordare che aveva un cane,
una cane lupo, con cui in piazza ballava e di cui andava molto fiero. Immagino
la scena, immagino una versione tutta Irpina di balla con i lupi. Al tramonto
salgo alla rocca per gli antichi vicoli pieni zeppi di portali, su ciò il paese
sembra un catalogo interattivo. Dal capo della balena il sole è ormai dietro le
colline. Sotto di me appare nitida la lingua del lago di Conza, mentre le varie
vallate si sovrappongono mescolandosi ed accorpandosi. Stradine sinuose si
lasciano seguire con lo sguardo fino a che scompaiono dietro un pendio. In
fondo i Picentini. Le pale eoliche del Formicoso. La luna. Il celeste sempre
più blu. E poi solo le stelle.
Un nuovo giorno volta la sua pagina, le colline di Cairano
albeggiano di rosso fuoco. Oggi non ho molta voglia di parlare con la gente,
l’ideale è parlare con la storia. L’abitato antico di Conza della Campania è il
luogo ideale. Il paese è fermo, le case si tengono compagnia con le altre case,
dal lontano 80 qui regna il silenzio, il vuoto. Percorro una via, una volta
penso importante. C’è una bella fontana, con due volti scolpiti, uno
sorridente, uno triste. Antichi presagi? Salgo al primo piano di un fabbricato
in buon stato, trovo una stanza piena di libri e fogli sparsi sul pavimento.
Uno di questi attrae il mio sguardo, un orario ferroviario datato 1976. Lo
sfoglio incuriosito dagli orari del tempo, trovo quelli della ferrovia che un
tempo passava anche qui. In rosso con un pennarello sono segnati la stazione di
Conza, un treno per Rocchetta, un altro per Foggia, ed ancora un espresso
notturno per Bologna, Milano. Chissà se era un viaggio turistico o un viaggio
della speranza senza ritorno quello programmato, sicuro il ritorno in quella
casa non c’è più stato.

Passeggio sulle rive del lago di Conza, intorno a me
pescatori. Mi siedo e mi concedo al paesaggio. Prendo nota che tutto ciò che
vedo è stato profondamente modificato, dalle epoche, dalle convinzioni più o
meno indotte dall’utilità provvisoria. Vedo un lago dove un tempo c’erano solo
campi coltivati. Vedo una ferrovia ricostruita a monte con piloni immensi dove
il treno oggi lo puoi solo sognare. Vedo un paese sulla collina semidistrutto
ed abbandonato. Vedo pale eoliche che spuntano la notte come germogli, ti
svegli, ne vedi una in più, ma quasi non ci fai più caso. Vedo oltre, vedo
quello che sarà, sperando che l’erba ci sia ancora.
Mi dirigo ad Andretta, faccio un’ultima sosta paese. Le
interazioni sono poche, rapide e flebili, ma solo per mia colpa. Visito la
mostra di reperti antichi nel comune, allegate ci sono foto che parlano di
protagonisti passati. Una signora in strada, gentilissima, si interessa al mio
pellegrinare, il suo sorriso lo imprimo in memoria. A pochi metri un vecchietto
che mi parla con gli occhi, sembra volermi benedire, augurarmi buona fortuna.
Anche lui è qui dentro di me. Altre piccole interazioni con i cani di paese.
C’è ne sono tanti, di ogni forma, di ogni età, di ogni sorriso.
Nel silenzio dell’ora di pranzo, così come al mio
arrivo, mi rimetto in marcia per tornare verso casa con il pensiero di presto
ritorno nei paesi dell’Irpinia d’Oriente. Scrigni di mille sensazioni, custodi di
smisurate entità.
Luoghi attraversati o visitati in ordine temporale: San Nicola Baronia, Trevico, Bisaccia, Aquilonia (AV), Lago di San Pietro, Monteverde (Av), Cairano, Conza della Campania,Lago Di Conza, Andretta (AV)